Massimo A. Alberizzi
Khartoum, 26 agosto 1998
C’è una strada che conduce il terrorista Osama Bin Laden alla “Shifa”, la fabbrica di Khartoum rasa al suolo il 20 agosto dai missili americani perchè sospettata di produrre composti per armi chimiche. Anzi c’è una casa. Il direttore generale della società, Osman Salman, vive nella stessa villa dove, fino a un anno e mezzo fa, abitava Ben Laden, l’uomo accusato di aver organizzato gli attentati alle ambasciate americane a Nairobi e a Dar es Salaam.
Una coincidenza? Forse. Però curiosa a Khartoum, città che conta 2 milioni d’abitanti. La palazzina si trova nel quartiere residenziale di Al Riad, vicino l’aeroporto, sulla 60esima strada, molto vicina all’ambasciata libica. Ben Laden ci abitava con tutta la sua corte: le guardie del corpo, gli impiegati delle società di cui è proprietario e i servitori. Ma non è la sola residenza che il “banchiere della morte” aveva affittato a suo tempo nel quartiere.
Poco più avanti, una trentina di metri, ce ne sono altre due, circondate dalla stessa recinzione. Lì era ospitato l’harem con le consorti, la servitù femminile, le cucine. Non sono edifici di lusso. Nessuno sfarzo in stile arabo – saudita. Ma si tratta di residenze molto eleganti se paragonate allo standard di vita sudanese: aria condizionata, enormi cisterne sui tetti, generatori d’emergenza (in Africa la corrente manca spesso), garage per auto e jeep, e una gigantesca antenna per captare le tv via satellite.
All’inizio scovare la casa sembra difficile. Il tassista al quale chiedo di portarmi, si ferma candidamente davanti all’ambasciata libica e insiste: “E qui che abitava”. Si convince dell’errore solo dopo aver parlato con le guardie di Gheddafi, barricate all’interno della legazione e armate fino ai denti. Ma basta poi chiedere ai passanti, per avere indicazioni più precise. La presenza del terrorista, durata più o meno quattro anni, ha lasciato il segno. Ogni cosa, intorno alle sue case, ha preso nome da lui: via Ben Laden, piazza Ben Laden, caffetteria Ben Laden. A questa sorte non si è sottratta neppure la moschea dove pregava, il cui nome vero sarebbe Al Wattah. “La sua corte, tra mogli, figli, segretari, aiutanti e guardie del corpo, contava una sessantina di persone – raccontano alla moschea -. E comprendeva anche gente mutilata, senza gambe, piedi o mani. A vederli, si sarebbero detti reduci afghani. Lui si spostava a bordo di una Toyota Land Cruiser marrone, preceduta da un’altra vettura con cinque uomini di scorta, armati fino ai denti, ma in abiti civili. Tutta roba vietata in Sudan: chi non porta la divisa non può circolare con i mitra spianati”.
Le sue tre mogli (solo in seguito Osama ne avrebbe sposata una quarta), stando ai vicini, comparivano di rado ed erano coperte dalla testa ai piedi”. “Erano saudite, con la pelle candida – racconta la signora Fatima – e sono venute a casa mia per tenere lezioni sul Corano. Ci chiedevano di coprirci il volto, di non lasciare che gli uomini ci vedessero, di seguire regole rigidamente islamiche. Hanno capito che non eravamo in sintonia con loro e, dopo un po’ di insistenza, hanno lasciato perdere”.
Come si chiamassero le tre mogli resta un segreto: “Non usavano il loro nome, ma venivano chiamate con quello dei figli: Umma Abdallah (Umma vuol dire mamma in arabo, quindi la mamma di Abdallah), Umma Hamzas, Umma Khalid”. La matassa diventa ancora più intricata quando si chiede chi abitasse nella casa prima di Ben Laden e dell’attuale direttore della “Shifa”: uno jugoslavo, di cui nessuno ricorda il nome. Qualcuno che viene definito “costruttore di strade”, come il terrorista ricercato.
La gente del quartiere non amava la famiglia dello sceicco integralista: “Se sentivano il suono di una radio mandavano le guardie a chiederci di spegnere tutto. Si badi bene, non abbassare, ma spegnere, perché lui, Ben Laden, non voleva nemmeno lontanamente sentire la musica”. E poi: “La strada era bloccata giorno e notte dai servizi di sicurezza. Non si poteva passare e si era costretti a fare lunghi giri”.
Una precauzione necessaria dal 1994, dopo che un commando dell’organizzazione fondamentalista islamica Al Tafik Al Higra, probabilmente formato da quattro uomini, aveva tentato di ammazzare lo sceicco: “Assalirono la sua casa e quella delle mogli a colpi di mitra – racconta Ahmed, che all’epoca fu testimone oculare del mancato attentato – . Ci fu una vera e propria battaglia. I segni sono ancora sui muri. Rimasero a terra dei morti, ma furono portati via immediatamente perché gli abitanti della zona, che si erano chiusi in casa durante lo scontro, non potessero vederli”.
Nessuno, prima che Ben Laden salisse alla ribalta delle cronache, sospettava si trattasse di un terrorista. “Lo incontravo spesso in moschea e pregavamo assieme – racconta un signore vestito con una candida jallabia, il camicione sudanese che arriva fino alle caviglie, interrompendo le genuflessioni islamiche -. Non parlava di politica ma solo di religione e di Corano. Sembrava proprio una persona perbene e godeva per questo di parecchia considerazione”.
Il quartiere di Al Riad, abitato soprattutto dalla media borghesia di Khartoum, da sempre refrattaria all’islamismo fondamentalista e contraria già di per sé alla legge coranica imposta in Sudan, sembra comunque che l’avesse isolato di proposito. “Di certo Ben Laden in questa zona non ha fatto proseliti – conclude in un bar Ali, accendendo il suo narghilè. – Sa, noi qui rimpiangiamo ancora i tempi (più o meno 15 anni fa) in cui si produceva la Camel Beer (“Birra del Cammello” era la marca). A proposito, non ha per caso con sé qualcosa di serio da bere?”
Massimo A. Alberizzi
DIDASCALIA FOTO
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