Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Kigali, 22 aprile 1998
Josuè Kaygaho vive a Kigali, ha 40 anni e fa il medico. Ma non è tutto. Josuè è anche il vicepresidente di un’associazione che si chiama Ibuka, un collettivo che raggruppa 19 organismi nati tutti a difesa dei “rescapes”, 200 mila o forse più sopravvissuti al genocidio. “Falchi” dei falchi. Tra i tutsi sono infatti quelli che più premono perchè giustizia sia fatta. “Che i boia vengano fucilati in pubblico o in privato, non fa differenza – dice Josuè Kaygaho -. In pubblico, l’esecuzione acquista però un valore pedagogico. Lo stadio di Nyamirambo a Kigali era pieno di gente. E’ la prova che la popolazione ruandese è d’accordo con il governo”.
E il ruolo di Ibuka? A Kigali tutti sanno che sono state proprio le associazioni dei “rescapes”, i tutsi francofoni contro quelli anglofoni (arrivati dopo il genocidio), a far pressioni sul parlamento perché le esecuzioni avvenissero in pubblico. E’ stata persino ribaltata l’ordinanza emanata dal ministero della giustizia non più di un anno fa, nella quale si parlava di esecuzioni al chiuso, nelle prigioni. “E’ il governo che ha deciso – dice Josuè -. E’ probabile che le prossime esecuzioni saranno al chiuso. Io personalmente allo stadio non ci sono andato. Avevo altro da fare. Ma uno di quelli che hanno ammazzato era Froduald Karamira. Io stavo a Kigali quando lui via radio incitava alle stragi, quando ai check point ordinava di fare a pezzi i tutsi. La gente voleva vederlo morto”.
Josuè è lui stesso un “rescape“: “Ho fatto parte del “gruppo” dell’Hotel Milles Collines. Ostaggi degli Interahamwe (la guardia civile hutu, ndr)”. I tutsi che si erano barricati in quello che era e che è tornato ad essere uno degli alberghi più lussuosi della città, furono costretti a bere l’acqua della piscina per sopravvivere.
Quando il Fronte Patriottico Ruandese (RPF. formato da altri tutsi nati, cresciuti e addestrati in Uganda) giunse a Kigali, dice Josuè, “io fui liberato in cambio di prigionieri hutu. Io e mia moglie. Tutto quello che è rimasto della nostra famiglia”.
Vendetta è una parola che il vicepresidente di Ibuka non vuole pronunciare. Per chi ha assistito allo scempio delle proprie famiglie, per chi si è salvato nascondendosi sotto mucchi di cadaveri, non esiste altra strada per far giustizia se non la morte dei propri carnefici. In più, i “rescapes” vivono una strana sindrome: quella di essere guardati con sospetto, quasi come collaborazionisti per il solo fatto di essere rimasti vivi. “Il genocidio per loro non è mai finito – dice il vicepresidente di Ibuka -. I guerriglieri hutu continuano ad ammazzarli perché temono che testimonino ai processi. Hanno perduto le case, le terre, ogni bene. Solo adesso sembra che il governo crei finalmente un fondo per loro”. Una sofferenza che genera odio. E l’odio vendetta. L’ora, come dimostrano le 22 fucilazioni di ieri, è già scoccata.
Massimo A. Alberizzi
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