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Ruanda: fucilazione in piazza, la folla fa festa. Ignorati tutti gli appelli internazionali alla clemenza. I condannati legati al palo e bendati, un bersaglio sul petto (di Massimo A. Alberizzi)

Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Kigali, 22 aprile 1998

La gente urla di gioia, applaude, fischia. I quattro corpi senza vita dei condannati a morte, ciascuno legato a un palo da dieci giri di corda, sembrano sacchi vuoti da cui il sangue continua a zampillare. E quel sangue esaspera l’eccitazione tutt’intorno a noi. “E’ finito, finito. Andate via”, gridano i soldati del servizio d’ordine, che – armati di grossi rami appena strappati dagli alberi – respingono le prime file della folla. I preparativi per la grande festa delle esecuzioni erano cominciati all’alba: camionette di giovani scorrazzano per le vie di Kigali, la capitale, quasi a guidare quanta più folla possibile verso i due punti della città dove è stato preparato il patibolo: fuori dallo stadio di calcio di Nyamirambo e nel quartiere periferico di Nyamata.

Qui a Nyamirambo, alle 10, saranno uccisi quattro dei 22 hutu condannati a morte per aver organizzato e perpetrato il genocidio degli hutu moderati e dei tutsi nel 1994. Alle 9.30 nello spiazzo chiamato “tappeto rosso”, dal colore della terra che lo ricopre e che diventerà presto rosso-sangue, si sono già raggruppate 10 mila persone. Mezz’ora dopo sono almeno 30 mila. Ci son tutti, anche donne e bambini. Molti sono sopravvissuti al genocidio.

Gli spettatori sono impazienti. Come a teatro partono applausi e fischi per incitare a far presto. Poi il primo boato di gioia: alle 10.20 arriva il convoglio con i quattro da fucilare. I loro nomi sono stati tenuti segreti fino all’ultimo. Solo quando scendono dalla camionetta vengono riconosciuti. Tra loro c’è una donna, Rose Virginie Mukankusi. Era il capo del quartiere di Muhima, proprio quello dove ora sta per essere ammazzata. “Lei conosceva tutti gli abitanti e quindi additava chi era hutu e chi era tutsi”, racconta Claude, il mio vicino.

A lei è destinato il più lontano dei quattro pali piantati a terra. Ha un’aria spavalda e cammina con passo veloce, il capo eretto. Forse attende la morte come una liberazione. Al primo palo viene condotto Elia Nizeimana. Era un viceprefetto. Per ogni dieci case aveva nominato un capo il cui compito era quello di indicare chi dei suoi vicini era hutu e chi tutsi. Il genocidio avrebbe avuto come primi carnefici proprio quei piccoli, insignificanti leader dell’ultima ora.

In terza posizione Silas Munyagishali. Era un procuratore che faceva incarcerare i tutsi e gli hutu moderati: qualcuno avrebbe poi pensato ad ammazzarli in cella.

L’ultimo è Frodwal Karamira, un’ovazione quando scende dalla camionetta. E’ il più conosciuto e il più odiato. Era vicepresidente del Movimento Democratico Ruandese ma soprattutto era l’uomo d’affari considerato la mente satanica del genocidio. “E’ lui cha ha comprato e distribuito le decine di migliaia di machete con cui gli estremisti hanno sistematicamente massacrato e fatto a pezzi gli avversari”, spiega il nostro informatore.

I giornalisti vengono in continuazione spintonati, minacciati, infastiditi. Vietatissimo fare fotografie: davanti a noi si schierano giovani tutsi enormi per ostacolare la vista dello spettacolo che ormai sta per cominciare. Chi parla con i “muzungo”, i bianchi, viene sgridato con violenza. “Un soldato mi ha minacciato: ‘Se gli dai ancora informazioni, stasera ti ammazzo'”, racconterà più tardi, Pierre, un uomo che mi stava vicino e viene costretto ad allontanarsi.

I quattro condannati vestono l’uniforme carceraria rosa. Pantaloni al ginocchio per gli uomini, gonna per la donna. Sono scalzi. Il volto è impassibile. Non cercano di scappare. Non pronunciano una parola. La regia di questa messa in scena destinata a scolpirsi nella testa della gente è perfetta. I poliziotti procedono a legare i condannati minuziosamente e con calma. Vogliono impedire che possano afflosciarsi sulle ginocchia. La corda viene passata intorno al loro corpo una, due, tre, dieci volte. La grossa matassa finisce per ingarbugliarsi e devono intervenire in due per cercare di venirne a capo.

Un uomo, in giacca e cravatta, si avvicina ai quattro e controlla che l’imbragatura tenga. Il tempo scorre lento, la gente non ulula più, si gode la scena. Arriva un agente che porta sacchetti neri che infila sulla testa dei condannati e quindi li fissa con un altro cordone al collo. Ancora un controllo per vedere se veramente la vista è impedita. Il caldo diventa soffocante.

Ma i preparativi non sono finiti. Manca il grembiulino bianco con un rettangolo nero che viene fissato al petto dei quattro. E’ il bersaglio. I condannati vengono lasciati così, in pasto al delirio del pubblico per 20 minuti. I polpacci neri che si vedono scoperti sembra stiano tremando, ma forse e’ solo un’impressione. E’ molto probabile che siano stati dei brutali assassini, che si siano macchiati dei peggiori crimini, ma quello che stanno subendo in questo momento è vendetta. Pura vendetta. Non giustizia.

Tutti si aspettano che il plotone di esecuzione si schieri ordinatamente davanti ai quattro pali per prendere la mira. Invece no. Da un drappello di poliziotti che sembra stiano chiacchierando in attesa di un ordine preciso, si staccano di corsa quattro agenti che cominciano a sparare ciascuno a una vittima. Quattro colpi che puntano a quel rettangolo nero ben in mostra sul torace, solo a Virginie un proiettile finisce in pieno viso. Il cappuccio si alza e lascia scoperta la faccia, ingessata su una smorfia di terrore.

Il lavoro non è ancora finito. Arriva un ufficiale e sfodera la rivoltella. I colpi di grazia alla testa sono due per ciascuno. I corpi restano agganciati ai pali come marionette. La gente vuol vedere da vicino. Un ragazzino si impadronisce di quello che resta degli occhiali di Silas Munyagishali. I corpi vengono portati via su quattro camionette scoperte. Una porta sul fianco la scritta: “Dono dell’Unicef al governo del Ruanda” Sarebbe dovuta servire per insegnare a vivere, invece aiuta chi persegue la vendetta di Stato.

Ora la folla può sfogarsi con i giornalisti: “Dov’era il tuo Paese quando ci ammazzavano tutti?”, urla una donna. Cercano di afferrare penne, orologi, occhiali. Un uomo mi strappa il taccuino e scappa. Viene bloccato da un soldato che controlla di cosa si tratti, strappa le pagine dove sono stati raccolti gli appunti e me lo restituisce. Ma quelle note non servono a molto, le immagini sono già stampate nella mia testa.

Massimo A. Alberizzi
twitter @malberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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