Massimo A. Alberizzi
Arusha (Tanzania), 22 aprile 1998
Eccolo Giorgio Ruggiu, l’italo-belga accusato di incitamento al genocidio e crimini contro l’umanità per la mattanza avvenuta in Ruanda tra aprile e giugno 1994. Secondo l’accusa, dalle onde di “Radio Mille Colline” avrebbe lanciato appelli agli hutu perché trucidassero quanti più tutsi possibile.
“Che aspettate? Le tombe sono vuote. Prendete i machete e fate a pezzi i vostri nemici”, avrebbe urlato ai microfoni. Oggi è lì, alla sbarra del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda per un’udienza preliminare. Un uomo piccolino, magro. Con occhiali enormi, sul viso scarno e pallido. Il capo avvolto in una kefir bianca e la barba rasata sotto il mento, alla maniera dei musulmani ortodossi che abitano sulla costa orientale africana.
Parla con voce pacata, quasi sussurra. Si è convertito all’Islam e ora si chiama Bashir. Le mani giunte reggono il tradizionale rosario maomettano. Sembra un eremita. Eppure sono in tanti a ricordare i suoi appelli micidiali: “Schiacciateli tutti come scarafaggi”.
Giorgio Ruggiu dal 23 luglio dell’anno scorso è detenuto, assieme ad altri 22 ruandesi (ex capi degli squadroni della morte, alti ufficiali dell’esercito, ex politici del passato regime hutu), in un’ala del penitenziario di Arusha che l’Onu ha affittato dalla Tanzania per rinchiudervi i presunti responsabili dei massacri.
Le celle sono piccole, ma tutte con toilette. I prigionieri hanno a disposizione computer, radio e telefono. I giudici del Tribunale, in contraddizione con i diritti della difesa e con lo stesso articolo 58 del regolamento dell’organismo Onu, hanno deciso di proibire agli imputati di parlare con i giornalisti.
Quest’intervista è stata quindi ottenuta violando le regole. Anche gli avvocati di Ruggiu, il tunisino Mohammed Aouini e il belga Jean Louis Gilissen, cercano di rivelare il meno possibile sul loro assistito per non irritare i magistrati. “I giudici vogliono provare che si è trattato di genocidio organizzato e pianificato – esordisce l’unico imputato bianco e non ruandese -. In realtà è stata una follia collettiva. La gente ha cominciato a uccidere ed era impossibile fermarla. È vero che sono andato in onda parlando a favore degli hutu. Non è vero che abbia incitato all’odio razziale e tanto meno al genocidio. Sfido chiunque a produrre una registrazione in cui io usi il verbo ‘uccidete'”.
C’è però chi racconta che una volta lei, in uniforme, assieme a dei miliziani hutu, ha raggiunto la chiesa della Sacra Famiglia stracolma di profughi, dove padre Wenceslas Munyeshyaka stava collaborando alla selezione delle vittime: i fedeli tutsi da una parte per essere massacrati, gli hutu dall’altra. Tre tutsi sarebbero stati portati dal sacerdote davanti ai suoi microfoni per un’intervista. Avrebbero dovuto dire che tutto andava bene.
“Conosco la chiesa della Sacra Famiglia ma nego di esserci andato con miliziani hutu. Non ho mai indossato l’uniforme, né sono mai stato scortato. Queste testimonianze sono false”.
Giorgio Ruggiu è nato a Liegi quarant’anni fa da padre italiano, emigrato in Belgio nel 1950 da Cossoine, un piccolo paese in provincia di Sassari. Aveva cominciato come minatore poi aveva sposato un’insegnante belga ed era passato a lavorare nei cantieri edili. “Ho ancora il passaporto italiano, il mio congedo militare è a posto e parte della mia famiglia vive in provincia di Latina”, precisa.
Il suo italiano è stentato e preferisce esprimersi in francese o in inglese. In Belgio, agli inizi degli anni ’90 era entrato in contatto con gruppi di studenti universitari hutu. “Sono un idealista e mi sono appassionato alla loro causa e ho partecipato al ‘Gruppo di riflessione belga-ruandese’. Così quando mi hanno offerto un lavoro in Ruanda ci sono andato. Si trattava di organizzare programmi per una nuova radio. ‘Una radio che avrebbe detto la verità’, mi fu spiegato. Sapevo che era a favore del presidente Juvenal Habyarimana. Seguivo le istruzioni che mi davano, ma non ho mai lanciato appelli per uccidere chicchessia”.
Parecchi testimoni sostengono che la radio incitava ad ammazzare non solo i tutsi e gli hutu moderati, ma anche i belgi ritenuti responsabili dell’attentato compiuto il 6 aprile 1994 all’aereo dove viaggiava Habyarimana e che gli costo’ la vita.
“Non posso dirlo, io non conosco la lingua kinyarwanda e non so cosa trasmettessero gli altri. Credo però che nessuno pianificasse il genocidio. È una follia, ripeto, che ha invaso la gente. Tutti si sono messi ad ammazzare senza pietà e forse senza capire perché. Io stesso sono stato minacciato dagli hutu. Un giorno ho assistito a una mutilazione di massa: c’erano uomini, donne, bambini a cui erano state mozzate le gambe e le braccia. I corpi continuavano a vivere nella sofferenza atroce. Mi son fatto avanti e ho chiesto: ‘Ammazzateli. Non lasciateli soffrire così’. Per tutta risposta mi sono trovato una pistola puntata alla tempia da un miliziano che mi ha ordinato: ‘Stai zitto o ti uccido'”.
Come mai è diventato musulmano? “Il comportamento di alcuni preti in Ruanda mi ha profondamente scioccato. Durante il mio primo viaggio nel 1993 ho visto cose che mi hanno fatto riflettere. Parecchi sacerdoti cattolici facevano della religione un business”.
Che affari? “Per esempio, vendevano falsi certificati di battesimo e soprattutto di matrimonio, per dimostrare unioni inesistenti. Poi durante la mia fuga sono finito a Mombasa. Lì mi ha protetto un gruppo di somali. Un giorno durante una retata della polizia keniota, su ordine del Tribunale Internazionale, uno di questi amici mi ha detto: ‘Resta chiuso nella tua stanza e tieni stretta al petto questa copia del Corano’. Così ho fatto. Gli agenti hanno guardato dappertutto arrestando parecchi ruandesi ma non mi hanno scovato. Nell’islam ho trovato una risposta a tutte le domande che mi assillavano prima e durante i massacri”.
Ruggiu è stato dipinto come un Robespierre, ma non sembra averne né la forza, né la volontà. Sembra piuttosto un uomo manipolato. In questi anni ha scritto un libro in cui racconta la sua tragica verità sui massacri. Lo tiene gelosamente custodito e non vuole renderlo pubblico finché non comincerà il processo, la cui data non è stata ancora fissata. Le accuse sono atroci. Ma saranno i giudici a decidere se è vero tutto quello che gli viene attribuito. Compreso l’ordine lanciato via radio: “A ognuno il proprio belga”.
Massimo A. Alberizzi
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